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Mechanical Engineering - Misure Termiche e Meccaniche

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1 APPUNTI DEL CORSO. A cura di Luca Ruiu Introduzione Vediamo la rilevanza attuale delle misure. Fino a solo 20 anni fa le misure erano abbastanza limitate a degli ambiti particolari ed erano tipiche dei laboratori di ricerca e delle fasi di R&D o controllo di qualità nella produzione. La ricerca richiede misure perché il metodo scientifico è basato sempre su misure nel senso che qualsiasi affermazione scientifica viene validata tramite un confronto con dei dati sperimentali che richiedono appunto misurazioni. Il metodo scientifico si basa sul fatto che io vado ad osservare quello che avviene nella realtà e questo si traduce nel fare delle misure. Anche l’evoluzione della scienza segue di pari passo l’evoluzione degli strumenti di misura che con- sentono di fare le verifiche delle teorie scientifiche. Ad esempio, le verifiche della relatività sono possibili quando si riescono a fare delle misure di tempo estremamente accurate che consentono quindi di fare dei confronti sulla velocità della luce (vedi il caso di qualche anno fa con la “scoperta” di particelle che si muovevano a velocità superiore a quella della luce, “scoperta” rivelatasi poi falsata da un problema legato ad un errore strumentale che quindi ha riconfermato la teoria della relatività). Sia nel campo dello sviluppo scientifico che in quello tecnologico, nei vari laboratori si fa largo utilizzo di strumentazione di misura. Quello che è cambiato negli ultimi anni è che la strumentazione è finita all’interno di tutti i prodotti. Se prendiamo, per esempio, un cellulare piuttosto che un normale oggetto che può trovare posto nella nostra cucina, se andiamo ad analizzarli nel loro interno ci accorgiamo che sono presenti una sempre maggiore quantità di strumenti di misura. E’ una tendenza che viene definita come “il rendere intelligenti le macchine” così come i sistemi, cioè dotare le macchine di un qualcosa che consenta loro di “rendersi conto” dell’ambiente che le circonda o comunque di tutte quelle variazioni che sono legate all’uso della macchina stessa. Questo ha comportato che mentre un tempo le misure erano legate ad un ambito di ricerca e di laboratorio, oggi chi si trova a progettare un prodotto industriale si trova a dover progettare anche una parte di strumenti di misura al suo interno. Questo corso si propone quindi da un lato di fornire allo studente la capacità di saper sce- gliere in modo corretto uno strumento di misura e dall’altro di saper leggere in modo corretto una misura (ad esempio, valutare l’affidabilità di quelle fornite da terzi in campo decisionale, cioè quando i valori delle misure determinano delle azioni da intraprendere. Questo aspetto è legato al concetto di INCERTEZZA della misura). Sul mercato esiste una varietà crescente di strumenti e solo alcuni di questi verranno presi in consi- derazione. Alla fine del corso poco importa se non ci si ricorderà le caratteristiche specifiche di un certo strumento (ad esempio il tipo di ambiente, il costo, la sensibilità, ecc.) - questi dati verranno forniti dalle relative schede tecniche - ma quello che sarà molto importante è sapere come opera uno strumento in modo da poterne selezionare una certa tipologia al momento dell’acquisto in fun- zione della misura specifica che dobbiamo fare. Come, per esempio, scegliere tra i numerosi mano- metri presenti sul mercato quello più indicato per effettuare la misura di una pressione dinamica in un certo campo di valori. Cos’è una misura? Quello che può essere il nostro concetto di misura è probabilmente legato, per esempio, al concetto di misura Euclidea, cioè al rapporto tra la lunghezza di un segmento e l’altro, quindi un rapporto tra segmenti che si traduce in un valore ben definito. Nell’ambito fisico, però, le misure sono notevol- mente diverse da questo concetto. In quest’ambito possiamo aver già il concetto di grandezza fisica che è poi legato a quello di misura, dato che viene definita come grandezza fisica una quantità che riesco a misurare. Per rendere fisica una grandezza si implica la misurabilità della stessa, cioè il fatto di poterle assegnare dei valori numerici. Ma cosa dice se un “oggetto” è misurabile oppure non lo è? La risposta si basa sulla teoria della misurabilità, molto generale e ancora in evoluzione. Il concetto moderno su cui si basa è legato al confronto tra le manifestazioni della quantità che voglio misurare, vedi per esempio due temperature. La condizione per dire se la temperatura è misurabile, è che si riesca a identificare una procedura 2 di confronto tra due temperature e che consenta di stabilire che una è più grande dell’altra e con- senta quindi di costruire una sequenza di manifestazioni crescenti o decrescenti. Se è soddisfatta tale condizione si riuscirà alla fine a creare un procedimento di misura. Quindi se si riesce ad effet- tuare un confronto tra due manifestazioni della misura che consente di stabilire una relazione di minore o maggiore tra le due allora la stessa è misurabile. Grazie a questo concetto è quindi anche possibile discriminare tra grandezze fisiche e non fisiche La MISURAZIONE è l’operazione attraverso cui effettuo una misura e può essere definita come ogni procedimento attraverso cui riesco ad associare numeri ad una grandezza fisica. La nostra definizione di misura è ancora abbastanza limitata. La norma italiana UNI 4546 (del 1984) ci dà una definizione di misura. La misura è un’informazione costituita da quattro elementi e cioè: UN NUMERO UN’INCERTEZZA UN’UNITA’ DI MISURA LO STATO DEL SISTEMA Questa definizione ci dà un’informazione importante. Qualsiasi misura di un parametro (l’equivalente di grandezza fisica) non si può fare in maniera indipendente da tutto quello che ci sta attorno, quindi un parametro è definibile solo se si definisce anche l’ambiente nel quale viene misurato il parametro stesso. L’esempio più semplice potrebbe essere quello della misura dimensionale, per esempio il diametro di un cilindro o di un pistone. In cosa si andrà a concretizzare quello STATO DEL SISTEMA? Il problema di quando effettuo la misura del diametro di un cilindro è che devo associare ad un oggetto fisico un modello, cioè trasformo un oggetto fisico che è un elemento formato da tanti aspetti tra loro diversi (se prendo per esempio un pistone, questo è un oggetto che ha una certa geometria, ma che è costruito anche con un determinato materiale) in un modello. Dal momento in cui vado a fare una misurazione del diametro su quel pistone io mi svincolo normal- mente dall’informazione sul materiale perché mi interesso solo di quello che è l’aspetto geometrico. Però, già il trasformare la geometria del pistone in un modello non è semplice perché se vediamo come è fatto scopriamo che è un oggetto complesso. Se solo lo analizziamo da un punto di vista micro-geometrico, noteremo che ha una superficie che si discosta da quella di un cilindro ideale perché ci sarà la rugosità con tutte le deviazioni ad essa legate. Nel momento in cui però parlo di diametro del pistone ho già implicitamente assunto per questo oggetto fisico un modello che è quello geometrico di cilindro. Allora per fare una misura implicitamente assumo per la rappresentazione della realtà fisica un modello che può essere geometrico, nel nostro caso un cilindro quindi un og- getto con punti equidistanti da un asse, oppure potrebbe essere in un altro caso un modello di tipo fisico. Se, per esempio, anziché voler misurare il diametro del pistone ne voglio misurare la resi- stenza meccanica del materiale a quel punto assumerò che l’alluminio di cui è composto è un ma- teriale magari isotropo, cioè con caratteristiche uguali in tutte le direzioni, e quindi prenderò un pro- vino in maniera casuale e andrò a fare una prova di trazione. Anche qui l’assunzione di materiale isotropo, implica che faccio un certo tipo di misurazione del carico di rottura piuttosto che del modulo elastico. Molto spesso non ci pensiamo ma sotto qualsiasi misura c’è l’assunzione di un modello. La norma prima citata dà quale definizione di modello quella di insieme di relazioni tra i parametri - in generale un modello è un’equazione, cioè una relazione tra i parametri che definiscono il mio sistema fisico. La norma ci ricorda quindi che per definire in modo univoco una misura devo anche ricordarmi di definire qual è lo stato del sistema, cioè devo assegnare tutti i parametri che definiscono lo stato del sistema nel momento in cui faccio la misura. Esempio: se misuro il diametro del pistone non devo solo dire che mi interessa l’elemento diametro ma anche fissare grandezze quali, per esempio, la temperatura (causa della dilatazione termica del materiale) affinché la misura sia univoca, oppure la pressione se questa agisce sulla deformabilità del materiale (non è il caso dell’alluminio) o l’umidità (agisce sulla dilatazione dei materiali compositi perché assorbono l’umidità e quindi possono subire dilatazioni o contrazioni). Il modello, quindi lo stato del sistema, può essere più o meno complesso in funzione di quello che sto misurando. 3 L’altro punto che la norma ci ricorda che deve esse re sempre presente nella misura è l’UNITA’ DI MISURA. Questa è un valore di riferimento assunto convenzionalmente per consentire poi il con- fronto tra misure diverse. Un punto che a volte si dimentica è l’INCERTEZZA. La normativa UNI definisce incertezza quell’intervallo di valori che può essere attribuito come misura del parametro. Il concetto è che quando faccio una misurazione in generale non ho un valore singolo bensì un intervallo di valori. Se per esempio voglio calcolare il calore disperso attraverso le pareti di un edificio applico la formula “Q=α A ∆T” e non voglio far altro che mettere dentro dei valori singoli. Però la realtà fisica è ben diversa perché di solito all’interno della nostra formula ho utilizzato, per esempio, un “α” che ho calcolato tenendo conto di una certa rugosità della parete che però non conosco tanto bene, il ∆T lo misuro prendendo una temperatura media dato che la temperatura della parete può essere in ogni punto un po’ più elevata o un po’ più bassa, quindi anche qui il calore scambiato dalla parete non è un valore unico ma è un intervallo di valori. Ritornando allora alla misura diretta del diametro del mio pistone mi rendo conto che non riesco ad ottenere un valore singolo. Se infatti proviamo a misurare “bene”, quindi con uno strumento che abbia almeno una risoluzione centesimale, il diametro di un pistone, magari di un motorino che ha già percorso “qualche chilometro”, ci si rende conto che la misura del diametro in una direzione lungo l’asse dello spinotto differisce da quella in direzione ad essa perpendicolare (quest’ultima inferiore a causa dell’usura dovuta alla spinta laterale della biella). Con l’usura infatti, quello che inizialmente poteva essere un “vero” cilindro è ora diventato un’ellisse. Questo problema potrebbe essere legato all’usura, ma misurando un pistone appena uscito da rettifica mi accorgo che la situazione non cam- bia più di tanto. Anche stabilizzando alla perfezione tutti i parametri che definiscono lo stato del sistema (vedi su tutti la temperatura), così come ipotizzando di avere uno strumento di misura “per- fetto”, mi accorgo che alla fin fine il mio pistone nuovo non è un vero cilindro. Se miglioro infatti lo strumento di misura rendendolo capace di distinguere le più piccole variazioni superficiali e quindi entrando nel campo della rugosità superficiale, il modello di cilindro inizialmente adottato diventa meno valido e nessun modello riuscirà ad aderire perfettamente alla realtà fisica al punto di avere un unico valore come identificativo di quel parametro. Il limite ultimo è proprio la differenza tra la realtà fisica e il modello che sto utilizzando. Quindi l’INCERTEZZA MINIMA è data dalla differenza che c’è tra il modello che sto utilizzando e la realtà fisica. Se restiamo sul pistone riesco a ridurre quell’incertezza minima? Finché dico che il pistone è un cilindro, la differenza tra un cilindro e la superficie reale del mio oggetto farà sì che non potrò avere un valore unico del diametro del pistone. Dalle lavorazioni di rettifica tipicamente escono degli oggetti che sono in realtà, anziché cilindrici, dei trilobati. Se anziché usare un cilindro utilizzassi un modello a forma trilobata e andassi a fare a quel punto non più la misura di un diametro ma di tre, riuscirei a ridurre quell’incertezza minima prece- dente. Cambiando il modello riduco l’incertezza minima di misura però anziché avere un singolo parametro a quel punto ne avrei tre per rappresentare il sistema. Quindi l’unico modo per ridurre l’incertezza minima è cambiare il modello, riducendo in questo modo la distanza tra la realtà fisica e il modello stesso. Per il pistone adottando un modello non più a forma trilobata ma per punti coordi- nati posso ridurre ulteriormente l’incertezza minima ma avrei a questo punto un numero tendente all’infinito di parametri aumentando la complessità di rappresentazione. Questa incertezza minima è chiamata INCERTEZZA INTRINSECA (l’intrinseca è esplicitamente riferita all’intrinseca del mo- dello). Fino a circa una decina di anni fa la misura e tutta la teoria della misura tendeva a far riferimento a un valore di misura che veniva detto il VALORE VERO DI MISURA. Quando si faceva una misura si diceva che esisteva un valore vero che non era mai possibile raggiungere a causa degli errori di misura, o per l’impossibilità di stabilizzare perfettamente le variabili che definivano lo stato del si- stema e così via, ma che da un punto di vista metafisico era possibile definire. Come conseguenza le misurazioni restituivano anziché il valore vero una distribuzione di valori. Nel momento in cui dico che c’è una incertezza intrinseca ci si accorge che non ha più senso dire che esiste un valore vero di misura perché anche affinando sempre più il modello avrò sempre una differenza minima tra mo- dello e realtà. La teoria moderna della misura fa a meno del concetto di valore vero considerando che una singola misura è un intervallo di misura, cioè è costituita da un VALORE DI RIFERIMENTO 4 che sarà un numero, ma anche da un’incertezza che è l’intervallo che metto attorno al valore di riferimento. Graficamente qualsiasi misura può essere così rappresentata: valore di riferimento -i +i i = incertezza misura Sarà costituita da un valore centrale che è quello di riferimento e poi un intervallo che è “+ i” e “– i”, cioè più e meno l’incertezza. Tutto l’intervallino è la misura. Data la nuova definizione di misura potrò ancora dire che la misura del diametro del pistone fatta da Mario è uguale a quella fatta da Giuseppe? Posso dire che due misure sono uguali? I due numeri sono uguali ma i due intervalli potrei chiedere che siano esattamente uguali e quindi sovrapposti? Questa condizioni è quasi irrealizzabile per i differenti fattori dai quali dipende l’ampiezza degli inter- valli. Ma cosa mi garantisce che i due hanno misurato la stessa quantità? Uno dice che i valori che potrei attribuire al diametro del pistone sono tra 49,5 e 50,5, l’altro dice che sono tra i 49,3 e 50,8. Se entrambi dicono che tutti questi valori sono possibili come misura per il diametro non stiamo dicendo niente in contraddizione dato che c’è un intervallo di valori che vanno bene per entrambi (caso a) e b)): a) b) c) Non c’è nessuna ragione per dire che stanno misurando due cose diverse. Il fatto che ci sia un’in- tersezione non nulla equivale a dire che le due misure sono in qualche modo equivalenti. Questa relazione viene chiamata RELAZIONE DI COMPATIBILITA’, questa sostituisce la relazione di ugua- glianza che non possiamo più considerare nel confronto tra misure. Parleremo allora di compatibilità e di non compatibilità come, per esempio, nel caso c) dove un terzo sperimentatore ha fatto una misura per la quale con il confronto con il caso b) non possiamo affermare che si tratta di misure dello stesso oggetto dato che non hanno intervalli in comune. Rappresentandoli graficamente si vede subito che b) e c) sono NON COMPATIBILI, mentre c) e a) SONO COMPATIBILI. A differenza della relazione di uguaglianza che è transitiva, nel senso che se a) = b) e b) = c) anche a) = c), la RELAZIONE DI COMPATIBILITA’ NON È TRANSITIVA: a) compatibile. b), a) compatibile c) ma b)  è c). 5 Dopo aver visto che tutte le misure dovrebbero cont enere l’informazione sull’incertezza, la rappre- sentazione convenzionale che viene adottata è: D = Do ±  con Do = valore di riferimento e i = incertezza L’uso di questa rappresentazione con l’informazione esplicita sull’incertezza è d’uso comune per tutti quei parametri un po’ critici, tipo la resistenza a trazione di un acciaio ( , σ = 510 ± 10 MPa), quindi quelli importanti anche per un discorso legato alla sicurezza. Normalmente l’incertezza non si indica. Ma perché malgrado questo tutto funziona abbastanza bene? Perché di solito scrivendo il numero della misura riesco implicitamente a mettere dentro un’in- certezza. Perché questo? Se io scrivo un carico di rottura come 510 MPa implicitamente io in realtà ho scritto un intervallo perché quel 510 può corrispondere a un 509,8, così come a 510,4 approssi- mando il valore numerico alle unità. Cioè l’approssimazione numerica, se fatta in modo ragionato, può implicitamente includere l’incertezza. Questo ci porta a dire che anche quelle misure che non riportano l’incertezza possono essere corrette utilizzando in maniera appropriata le cifre che le rap- presentano per racchiudere in modo esplicito l’incertezza stessa. Questa è una modalità non racco- mandata ma abbastanza comune nella pratica. Questo ci deve comunque responsabilizzare. Se scrivo un numero di una misura e non voglio scrivere l’incertezza in modo esplicito, quello che devo fare è aver cura di non mettere troppe cifre decimali. Questa è una prima carrellata di informazioni relative all’incertezza perché il problema non è ancora completamente risolto. La sua definizione infatti, parla di un intervallo di valori che possono essere attribuiti. Quel “possono essere attributi” ci lascia abbastanza libertà di scelta da un lato e incapacità di definire in maniera univoca l’intervallo dall’altro. Per definirlo in maniera quantitativa si fa ricorso ai metodi della statistica. Noi possiamo dire che nessuna misura mi darà un intervallo che con as- soluta certezza contiene tutti i possibili valori attribuibili a quel parametro ma grazie alla statistica potremo dire che la misura mi offre un intervallo che con un certo livello di confidenza, cioè con una certa probabilità, contiene i valori che possono essere attribuiti a quel parametro. Per dare un valore all’incertezza noi faremo riferimento alla norma ISO – GUM (Guide to the expres- sion of uncertainty in measurement - Guida per l'espressione dell'incertezza nelle misure) del 1994. La normativa italiana ha recepito questo documento e l’ha chiamato UNI CEI 9 (1998), successiva- mente c’è stato il recepimento da parte della normativa europea come ENV13005, che UNI ha a sua volta recepito come UNI-CEI-ENV13005 (2000) ritirando la UNI-CEI-9. Nel 2008 ISO ha pubblicato la GUM con revisioni minori come ISO GUIDE 98 part 3. Una copia di questa norma è scaricabile gratuitamente dal sito della OIML (organizzazione internazionale di me- trologia legale) che è tra gli autori della GUM e che la codifica come G1-100. La ENV era una norma transitoria che è stata ritirata così nel 2016 la UNI corrispondente è stata sostituita dalla UNI-CEI 70098 parte 3 NOTA: Com’è strutturato il sistema normativo La ISO è l’organismo internazionale che emana delle norme a livello mondiale. Nessuna normativa della ISO può essere imposta agli Stati nazionali, ma questi possono decidere di recepire la norma- tiva e la fanno loro modificandola all’interno della normativa nazionale. Abbiamo anche un livello intermedio che è il livello europeo. A livello europeo c’è un ente che predispone le norme, il CEN (Comitato Europeo di Normazione) gli Stati europei non sono obbligati a recepirle ma spesso lo fanno ricodificandole nella normativa nazionale. Il passo successivo che dobbiamo affrontare è quello relativo a come valutare l’INCERTEZZA. La norma di riferimento è la UNI-CEI 70098-3 ≡ ISO – GUIDE 98 part. 3. Questa norma è uscita per la prima volta nel 1994 e codificò procedure di valutazione dell’incertezza che non erano comunemente applicate quindi incontrò soprattutto all’inizio anche forti resistenze all’adozione, soprattutto nel mondo anglosassone. C’è comunque in atto un processo di progressivo adeguamento perché normative “datate” specifiche di certi settori prevedevano metodi di valutazione diversi e la completa armonizzazione del sistema normativo è un processo lento. Più avanti daremo un cenno su quelle che sono le procedure “storicamente adottate”. 6 Per prima cosa è interessante sottolineare il fatto che si parla di valutazione e non di calcolo dell’in- certezza. Questo ci deve ricordare che l’incertezza non è mai determinata in maniere totalmente deterministica, quindi c’è sempre una certa aleatorietà nella sua valutazione. Molto spesso si prefe- risce chiamarla la STIMA dell’incertezza piuttosto che la valutazione. Prima di andare a vedere la procedura dobbiamo acquisire un minimo di terminologia. VERIFICA DI RIPETIBILITA’ (operazione spesso effettuata sugli strumenti di misura per verificarne il funzionamento): consiste nell’eseguire la misura di una quantità nota, cioè un “campione di misura” con un certo numero di ripetizioni e quindi analizzare i valori che si ottengono. Perché sia una ripe- tibilità si deve fare la misura sempre nelle stesse condizioni (quindi con lo stesso operatore, stesse condizioni di temperatura, la stessa strumentazione esattamente nella stessa configurazione ecc.). C’è un termine simile che è detto di RIPRODUCIBILITA’. In questo caso si misura la stessa quantità ma con un altro operatore, un altro strumento di misura ecc., cioè voglio solo vedere se le due modalità di misura sono equivalenti. La ripetibilità si concentra su un singolo strumento e in condizioni di misura ben determinate e fis- sate. Quello che si misura in questo tipo di operazione è chiamato il CAMPIONE DI MISURA. Un esempio di campione di misura, nel campo delle misure dimensionali, sono dei blocchetti che hanno dei piani paralleli e sono chiamati BLOCCHETTI JOHANSSON. Sono blocchetti a facce parallele dove due di queste sono lavorate con estrema accuratezza per ottenere un valore vicino a quello nominale. Prendiamo come esempio il blocchetto da 10 mm - vuol dire che le due facce di riferimento sono distanti 10 mm entro tolleranze molto piccole (per i 10 mm siamo tipicamente all’interno della frazione di micrometro che nel campo della metrologia meccanica è irrilevante per l’accuratezza dello strumento e per questo possono essere assunti quali campioni). Se dovessimo scrivere la misura di questo blocchetto, questa sarebbe 10 mm e basta? No, perché per la definizione di misura questa non può essere mai un valore singolo. Quindi il valore centrale sarà 10 mm tuttavia avrà un intervallino di incertezza molto piccolo (decimi di µm). Tradizionalmente faceva molto comodo pensare che ci fosse un valore vero di misura. In queste situazioni siamo molto vicini alla condizione in cui c’è un valore vero perché il 10 mm non è l’unico valore, ma è quello centrale all’intervallo che è molto piccolo. In questa situazione spesso si dà al valore 10 mm la denominazione di valore convenzionalmente vero. Se io faccio la misura ripetuta di questo oggetto che cosa ci possiamo aspettare quale valore di uscita dello strumento se questo funziona correttamente? Il valore nominale è 10 e se lo strumento funziona correttamente questo mi dovrebbe dare 10 mm (se utilizzerò uno strumento che non riesce a discretizzare quegli 0,2 µm che sono l’intervallino). Cosa succede nella realtà? Dipende dagli strumenti ovviamente ma normalmente non ottengo sem- pre il valore 10 mm, ma otterrò che le misure saranno concentrate nell’intorno del valore 10, ma non tutte esattamente su questo valore: Frequenza 5 - 10 = Vn X (quantità che misuro) Vn è il valore nominale del campione 7 Quello che posso rappresentare in questo caso è una distribuzione di frequenze nel senso che si può indicare quante volte si è ottenuto ogni valore di lettura esempio il valore 10. Nel caso di figura 5 volte. Per rappresentare il fatto che non ottengo sempre 10 ma ottengo letture all’interno di un certo inter- vallo, ho diverse opzioni possibili. Una che è molto intuitiva è quella di dire che ho ottenuto un valore minimo pari a 9,8 mm e un valore massimo pari a 10,3 mm, ma non è il modo migliore di rappresen- tarlo. Questo perché se ho ottenuto una sola volta un valore molto piccolo e una sola volta un valore molto grande, dando la sola informazione di qual è il minimo e il massimo si equipara la situazione precedente a quella di uno strumento con cui ho ottenuto quasi sempre il valore minimo e quasi sempre quello massimo. In statistica quello che si fa è usare un parametro che esprime la “distanza media” tra il valore nominale del campione e i punti trovati. Meglio ancora, però, anziché rispetto al valore nominale si va a cercare quello che è il valore medio delle mie misure: lo chiamo “x medio” = ∑   con n = numero di misure e poi per esplicitare quanto le mie misure siano lontane tra di loro calcolo un parametro che viene chiamato S, cioè la stima dello scarto tipo che è definito come: S =  ∑ (   )   ( distanza quadratica media dei punti rispetto alla loro media) Il “quadrato” è indispensabile perché se non lo mettessi avrei che il valore tra parentesi sarebbe nullo. Abbiamo il valore nominale del campione. Se lo strumento funzionasse “bene” come si andrebbe a collocare “x medio” rispetto al valore nominale del campione? Dovrebbero ovviamente coincidere. Quindi: nello strumento ideale  ≡ 10 ≡ Vn (valore nominale del campione) nello strumento reale si definisce invece errore sistematico (BIAS) la quantità: εsist =  - Vn S, che è uno scarto tipo, considerando che l’abbiamo ottenuto con una operazione di ripetibilità, lo chiamiamo S r, cioè Scarto tipo di ripetibilità S r = Scarto tipo di ripetibilità Guardiamo all’errore sistematico. Se abbiamo fatto questa operazione di ripetibilità utilizzando per esempio un micrometro, questo strumento ha la possibilità di spostare lo “zero”. Se dopo l’opera- zione ci rendiamo conto che l’errore sistematico è + 0,01mm, cioè 1/100mm, spostando lo zero indietro di 0,01mm avremo modo di togliere l’errore sistematico individuato. La guida di valutazione dell’incertezza tiene conto di questa situazione e in effetti dice che gli errori sistematici normalmente si possono correggere o in maniera “hardware”, come con lo spostamento dello zero dello strumento, oppure se ho una relazione che mi individua l’errore sistematico nei vari punti della scala (dato che può variare anche da punto a punto) apportando a posteriori le dovute correzioni alle misure effettuate. La norma dice quindi che non è limitativo pensare che uno strumento sia privo di errori si- stematici. Quelli che non posso correggere sono gli ERRORI CASUALI, cioè il fatto che una misura mi viene un po’ più grande, una un po’ più piccola e così via ad ogni ripetizione, senza sapere a priori quando si verifichi l’una o l’altra situazione, cioè la misura dipende da un qualcosa che non posso valutare a priori. 8 Se andiamo a vedere per esempio il micrometro prima considerato, cosa potrebbe far venire una misura un po’ più grande o più piccola? Tipicamente sono effetti “dinamici”, cioè io mi posso avvici- nare con i beccucci dello strumento al pezzo da misurare più o meno velocemente, partendo magari da differenti posizioni di apertura dei beccucci stessi, oppure esercitare una pressione di contatto leggermente superiore a seconda della posizione della mano e altro ancora. Fattori quindi del tutto casuali che non riesco né a predire né a correggere sulla singola misura. La valutazione dell’incertezza parte da una posizione in cui ho corretto gli errori sistematici. IPOTESI: ASSENZA DI ERRORI SISTEMATICI VALUTAZIONE DI TIPO “A” DELL’INCERTEZZA Devo fare un’operazione simile a quella vista prima, cioè ripetere “n” volte la misura, quindi è un metodo che posso applicare solo se posso ripetere più volte la misura sullo stesso oggetto. RIPETIZIONE DI n MISURE X i con i = 1, …, n CALCOLO DEL VALORE MEDIO = ∑   CALCOLO DELLA STIMA DELLO SCARTO TIPO S =  ∑ (  )   CALCOLO DELLO SCARTO TIPO DELLA MEDIA S  = √ Che dimensione ha lo scarto tipo? Se la mia misura è per esempio in metri (m), sotto radice ho “metri al quadrato” e quindi S è ancora “metri”. Quindi è un oggetto omogeneo rispetto a quello che sto misurando. L’ultimo punto sopra scritto è il calcolo dello scarto tipo della media. Il significato di questo parametro è che se io prendo un numero elevato di misure e vedo qual è il loro scarto tipo S e poi le divido in gruppi di “n valori” e per ogni gruppo di “n valori” ne calcolo la media e tratto la media come prima avevo trattato le misure singole, quindi anziché avere la singola misura uso la misura come la media di n misure, e poi vado a calcolare lo stesso parametro, cioè lo scarto tipo dei singoli campione di n misure rispetto alla media di tutti i campioni ottengo anche lì uno scarto tipo che è più piccolo rispetto a quello prima calcolato con tutte le misure. Quanto più piccolo? Lo scarto di quelle misure diviso la radice quadrata di n. Questo discorso è legato ad un argomento di statistica, cioè l’analisi campio- naria. Intuitivamente, se prendiamo le altezze di tutti gli studenti di una classe e calcoliamo lo scarto tipo S dell’altezza, questo avrà un valore abbastanza grande perché ci sarà qualcuno alto 2 m e qualcuno alto solo 1,60 m. Se io invece prendo gruppi di 10 persone e ne faccio la media, quale sarà il valore più grande della media delle altezze delle persone? Sicuramente più basso dei 2 m dello studente più alto. Anche lo scarto tipo diminuirà di conseguenza. A questo punto abbiamo finito perché la valutazione della misura è: MISURA =  ± S  S è l’incertezza tipo ≡ scarto tipo DOMANDA: riusciamo sempre a togliere gli errori di tipo sistematico? 9 Facciamo l’esempio di un metro lineare con il quale misuriamo il diametro di un pistone, il quale ha una tolleranza inferiore a un centesimo di millimetro, e di ripetere un procedimento simile a quello prima descritto. Cosa possiamo aspettarci di ottenere? Faccio, per esempio, 20 misurazioni del diametro del pistone con il mio metro a nastro. Otterrò 20 misure diverse? Considerando che l’operazione di misura con questo strumento è quella di andare a vedere la tacca più vicina al bordo dell’oggetto e le tacche sono distanziate di 1 mm, la tacca più vicina sarà sempre la stessa. Applicando il metodo di prima, essendo tutte le misure pari per esempio a 50 mm, la media sarà sempre 50, la differenza (" − ) sempre zero e quindi lo scarto tipo sarà nullo così come l’incer- tezza tipo. Per assurdo il metro che non è certo uno strumento “di precisione” mi dà un’incertezza pari a zero. Questo vuol dire che ci troviamo davanti ad un caso in cui non possiamo di certo appli- care questo processo di valutazione dell’incertezza e la condizione per cui non è applicabile è proprio quella iniziale e cioè che lo strumento non produca degli errori sistematici. In questo caso infatti, lo strumento effettua in generale un errore sistematico. Perché? Proviamo a ragionare su quello che avviene quando utilizziamo uno strumento di questo tipo. Valore di misura La tacca indicata è quella più vicina al bordo dell’oggetto e mi rappresenta il valore di misura. Se ri- peto n volte la misura, ogni volta il valore viene arroton- dato per difetto nel caso di figura. Quindi l’errore che viene fatto dallo strumento è sempre lo stesso. Il suo valor medio è esattamente l’arrotondamento per difetto del valore reale. Questo strumento genera un errore di tipo sistematico e quindi non posso utilizzare il metodo di valutazione dell’incertezza di tipo “A”. 49,5 50,5 48 49 50 51 r = risoluzione Se quella prima indicata è la scala dello strumento, la lettura 50 a cosa corrisponde? Che l’oggetto è sicuramente lungo 50 mm oppure l’informazione è più complessa? Alla lettura 50 non corrisponde solo il bordo coincidente con 50, ma tutti i bordi compresi tra 49,5 e 50,5 mm. In realtà ho un intervallino di valori che mi comprende delle possibili misure dell’oggetto corrispondenti alla lettura di 50 mm. Verrebbe semplice a questo punto prendere la definizione ini- ziale di incertezza, l’insieme di valori che posso attribuire ragionevolmente al mio misurando, dato che l’ho già (intervallo tra 49,5 e 50,5 mm). Il problema di usare qui questa definizione è che prima non avevo preso con lo scarto tipo tutti i valori, perché avevo preso un valore quadratico medio, cioè avevo “mediato” tutte le distanze al quadrato e ne avevo preso un valore medio. Quindi ci sono, nel caso di prima, valori più grandi dello scarto tipo della media che ho trovato e valori più piccoli, cioè ho usato prima un criterio che non è quello di prendere dentro tutti i valori ma solo una certa quantità. La norma dice che devo usare sempre lo stesso parametro, quindi avendo prima uno scarto tipo e quindi un’incertezza tipo, anche qui devo usare uno scarto tipo per rappresentare l’incertezza, quindi non devo usare tutto l’intervallo ma un qualcosa che è un valore quadratico medio. Se dovessimo scommettere su un punto dell’intervallo 49,5÷50,5, e quindi scommettere che la mi- sura è esattamente un certo valore, punteremo di più sul 50, o su un 49,7 o che altro? Purtroppo ogni punto ha lo stesso peso, cioè la probabilità che uno di quei punti sia la misura più probabile è uguale per tutti i punti. É come dire che posso assegnare una distribuzione di probabilità uniforme uguale per tutti e una volta che ho fatto questa operazione riesco a scrivere il valore di uno scarto tipo corrispondente a questa situazione è uguale a: S = % &√' SCARTO TIPO r = risoluzione (corrisponde alla distanza tra due tacche) 10 É lo scarto tipo, cioè il valore quadratico medio d elle distanze tra i punti dell’intervallo e il valore centrale. Ho trovato un altro modo per scrivere un’incertezza senza fare misure ripetute. Ne faccio una sola ma so come funziona lo strumento. Questo tipo di valutazione la chiamiamo di tipo B. VALUTAZIONE DI TIPO “B” DELL’INCERTEZZA ≡ TUTTE LE VALUTAZIONI NON “A” Mentre con la valutazione A abbiamo scritto una serie di operazioni da fare e l’incertezza viene valutata sempre nello stesso modo, per la B abbiamo visto ora un caso in cui lo strumento sia affetto da risoluzione pari a “r”. · CASO DI STRUMENTO CON RISOLUZIONE r = % &√' INCERTEZZA TIPO (per strumenti affetti da risoluzione) Un’altra situazione che capita spesso è che quando compro uno strumento e non mi danno una risoluzione, però mi dicono che l’errore massimo che può fare lo strumento è pari a un certo valore. Per esempio, compro un termometro e mi dicono che l’errore massimo è di 1/10 di grado. Questo vuol dire che se leggo adesso una temperatura di 24°, in realtà la temperatura potrebbe essere 23,9° o 24,1°. 23,9° 24° 24,1° Se facciamo lo stesso ragionamento della “risoluzio ne” di prima, anche qui tutti i punti compresi nell’intervallo sono indifferenti, quindi la relazione che dobbiamo usare è sostanzialmente la stessa, però qui l’errore massimo è sostanzialmente la metà della risoluzione ed è la distanza tra il massimo dell’intervallo, o il minimo dell’intervallo ed il valore letto: εMax = 0,1 °C · CASO ERRORE MAX “ εMax”  = ()*+ √' = & ( )*+ & √' con % = & ( )*+ Questo errore massimo è spesso chiamato ACCURATEZZA o ACCURACY (anche se l’Accuracy non dovrebbe essere una quantità, bensì una qualità secondo la ISO – GUIDE 99). Altro caso è quando mi danno nella scheda tecnica dello strumento lo scarto tipo di ripetibilità S r. Mi danno un’informazione equivalente a quella che otterrei se io ripetessi n volte la mia misura. Questa operazione è ovviamente stata fatta da qualcuno su un determinato campione di misura per carat- terizzare lo strumento. Questo è uno stato equivalente di valutazione di tipo A ma fatta da un’altra persona e che io devo cercare di utilizzare nel mio caso. L’operatore ha determinato S r ma io faccio una singola misura, cioè dovrei fare una stessa valutazione di tipo A in cui il numero di misure è pari a 1. In questo caso avremo, omettendo la √1 , · CASO SCARTO TIPO DI RIPETIBILITA’  = S r Questi sono i casi più frequenti per la valutazione di tipo “B”. Un altro caso abbastanza frequente è quello del sistema di misura che fa sempre la stessa cosa, per esempio misura il modulo elastico di materiali metallici. Per tanti materiali metallici ho determinato l’incertezza con valutazione di tipo “A”. Posso ad un certo punto dire che siccome l’incertezza del tipo “A” è sempre risultata la stessa, quindi ho caratterizzato il comportamento del mio strumento di misura, gli attribuisco quell’incertezza e non la vado più a valutare in seguito. In questo caso l’esperienza dello sperimentatore fa sì che egli possa assegnare l’incertezza di tipo “B”, cioè lo fa senza ripetere le misura ma basandosi sulle prove fatte in precedenza e sulla conoscenza acquisita sullo strumento stesso. Quindi grazie alle cono- scenze pregresse, posso mettere un numero sull’incertezza di misura. 11 Questo ora descritto è il primo passo che faremo sempre quando facciamo una valu- tazione di incertezza. Quindi partiamo da informazioni più o meno strane, come quelle che possono essere fornite con la documentazione tecnica dello strumento ecc., per definire un’incertezza tipo da mettere al fianco della mia misura. A volte non è proprio semplice trovare le giuste informazioni dalla scheda tecnica. Infatti l’errore massimo viene spesso indicato con nomi differenti in base al tipo di strumento (vedi errore di isteresi, errore di linearità ecc.). Se la nostra misura fosse sempre del tipo “ho lo strumento che mi da quello che voglio”, la nostra trattazione potrebbe finire qui. Molto spesso, però, noi misuriamo più parametri per determinarne un altro. Ad esempio misuriamo coppia e velocità angolare per calcolarci la potenza di un motore. Il problema che ci poniamo ora è, ma se io conosco l’incertezza sulla coppia e l’incertezza sulla velo- cità angolare, quale sarà l’incertezza sulla potenza del motore? La risposta ci viene data dalla PROPAGAZIONE DELL’INCERTEZZA Ho una variabile dipendente “y” che vorrei misurare che è funzione di “p” variabili statisticamente indipendenti, quelle che riesco a misurare direttamente: y = f (x 1, ……, x p) se questa relazione fosse molto semplice, del tipo y = x 1 + x 2 + … + x p allora potrei scrivere: y =  . /+  /+ ⋯ + 2 / cioè se la relazione fosse una somma la propagazion e sarebbe immediata. Avrei la cosiddetta combinazione quadratica delle incertezze dei singoli parametri. Il quadrato dello scarto tipo si chiama VARIANZA, quindi se eleviamo tutto al quadrato otteniamo la relazione che la varianza della somma è uguale alla somma delle varianze. Quante relazioni di somma abbiamo nella pratica? Purtroppo decisamente poche e in pochissimi casi la variabile dipendete è una semplice somma. Però dall’Analisi Matematica sappiamo che lo- calmente qualsiasi funzione può essere trasformata in un qualcosa di simile alla somma di termini. L’operazione che approssima una funzione localmente con una somma di termini è la serie di Tay- lor. Se applichiamo lo sviluppo in serie di Taylor per una funzione generica possiamo scrivere: y = 34 56 5 . .7 / +4 56 5  7 / + ⋯ + 8 56 5 2 29 / :; :+  = FATTORI O COEFFICIENTI DI SENSIBILITA’ Questi fattori sono abbastanza importanti perché vanno a pesare l’incertezza dei singoli parametri. Quindi paradossalmente a volte mi trovo che magari un parametro x 1 l’ho misurato con un metro lineare e ha un’incertezza dell’ordine di mezzo millimetro, un parametro x p l’ho misurato con un comparatore centesimale e ha un’incertezza che è all’incirca 1/100 dell’altro. Se però i due rispettivi fattori di derivata parziale sono in relazione opposta tra loro, cioè se il fattore di sensibilità del termine che aveva un’incertezza più piccola è 100 volte quello più grande rispetto all’altra, paradossalmente lo strumento molto accurato, il micrometro o il comparatore centesimale, può influire sull’incertezza complessiva anche più di quanto non faccia il metro. Mentre nel caso semplice è sufficiente guardare 12 le incertezze, qui per vedere qual è l’elemento cri tico devo guardare il prodotto tra l’incertezza e fattore di sensibilità. Posso avere uno strumento con incertezza molto piccola che ha un fattore di sensibilità molto grande ed è lui che mi condiziona maggiormente l’incertezza complessiva. Questa analisi è molto utile per scegliere gli strumenti. Questa è la situazione più semplice ma si possono verificare delle situazioni più rischiose, cioè quelle in cui I VARI PARAMETRI si dice che STATISTICAMENTE NON SONO INDIPENDENTI. Questo vuol dire che se uno aumenta, aumenta anche l’altro o viceversa. X 2 X2 X 1 X1 a) STATISTICAMENTE INDIPENDENTI Ad un aumento di x 1 può corrispondere una diminuzione di x 2 b) STATISTICAMENTE DIPENDENTI Mediamente se x 1 aumenta lo fa anche x 2 Per il caso a) va bene la y prima vista, mentre per il caso b) PROPAGAZIONE PER VARIABILI STATISTICAMENTE DIPENDENTI (questa formula si utilizza raramente) y = 3∑ 4 56 5  7 / < = + 2 ∑ ∑ 8 56 5  56 5 ?  ?@A 9 < A=B 100 utilizzo sempre la mia Gaussiana Qual è la differenza nell’usare una t-student al posto di una Gaussiana? Che per avere il 68% anzi- ché avere un K=1 ne avrò uno un po’ più grande. Non posso dire il valore perché la t-student non è una funzione singola, ma è funzione del numero di gradi di libertà, cioè di quanti punti ho usato per la valutazione di tipo “A”. t-student t = f(probabilità, ν = n-1) La t-studend è funzione della probabilità, cioè dato un LC mi da un valore del moltiplicatore K, e di ν = gradi di libertà con n = numero misure. Quindi avremo delle t-student per 10, 20, 35 ecc. gradi di libertà. Confrontando una funzione t-stu- dent con ν oltre i 100 con una Gaussiana, le due distribuzioni diventano identiche. Nell’uso pratico se uno ha un foglio di Excel, esiste la funzione inv.t.2t che, inserita come probabilità il complementare a 1 del LC che voglio avere e il numero di gradi di libertà, restituisce il K (fattore t) equivalente per il caso specifico. Operativamente a noi interessa che se abbiamo fatto valutazioni di tipo “B”, oppure di tipo “A” con più di 100 punti di misura allora possiamo usare i moltiplicatori sopra indicati. Altrimenti dovremo andare a cercarci dei moltiplicatori diversi come visto ora con la t-student. I K ottenuti con la t-student sono sempre più grandi di quelli relativi ad una Gaussiana. Se ho fatto poche misure ho in effetti una cattiva conoscenza di come queste sono distribuite, l’S valutato con poche misure è a sua volta incerto (σ potrebbe essere più grande). Il fattore K diventa più grande per allargare l’intervallo corrispondente alla stessa probabilità. Perché è importante dare una misura a quell’incertezza in modo tale che non sia sempre l’incertezza tipo, ma quella corrispondente, per esempio, al 95% di Livello di Confidenza, cioè prendo in consi- derazione un intervallo che contiene il 95% delle misure anziché solo il 68%? In quali casi sarà importante poter contare su questa informazione? E’ importante in tutte quelle applicazioni che hanno qualche implicazione molto grave, per esempio delle strutture per le quali la sicurezza dipende dalla scelta che sto facendo. Se sottostimo il carico di rottura posso mettere a rischio l’intera struttura. Se prendo questo parametro con un’incertezza piccola (considero ovviamente nei calcoli il valore più piccolo per operare nel campo della maggiore sicurezza) posso correre il rischio che l’effettivo carico di rottura del materiale che sto usando sia più piccolo rispetto ai dati utilizzati perché si colloca in un punto non compreso all’interno del 68% delle misure fatte. Il Livello di Confidenza è spesso previsto da normative specifiche, quindi se faccio misure di conta- minazione, per esempio di acque, per valutare la presenza di inquinanti nei fiumi le norme dicono già di fare le misure con un LC predefinito. Prima abbiamo parlato di gradi di libertà. Se passiamo attraverso la propagazione, i vari parametri possono essere stati ottenuti con un differente numero di misurazioni. Uno con 20, un secondo con 10 e così via. In questo caso che t-student utilizzo? cioè quanti gradi di libertà considero? C’è una formula, detta di WELCH-SATTERTHWHITE, che non è chiesto di memorizzare ma è ne- cessario ricordare che esiste, che ci permette di trovare il numero di gradi di libertà equivalente. (Importante è sapere che facciamo riferimento alla norma UNI-CEI 70098-3 per reperirla). lm nop = ∑ 8  P  ql qP 9 m nP < = da questa formula ricavo r st 20 E’ una formula che ricorda quella di propagazione. Se ho una valutazione di tipo B il numero di gradi di libertà equivalente è infinito, quindi all’interno della sommatoria i termini legati a questa valutazione spariscono. I gradi di libertà tengono conto di quanto bene conosco lo scarto tipo S. Con infinite prove lo conoscerei in maniera perfetta, ma anche determinare S come r/2 √3 è una relazione ana- litica che corrisponde al conoscere S in maniera perfetta come se avessi fatto infinite prove. REGOLE DI SCRITTURA x = (x o ± ) U.M. valore ± incertezza con U.M.= unità di misura L’unica regola importante che dobbiamo utilizzare è L’INCERTEZZA SI SCRIVE CON 1 o al MASSIMO 2 CIFRE SIGNIFICATIVE Qual è il senso di questa regola? Quando scrivo un numero con un certo numero di cifre significative implicitamente sto scrivendo anche un’incertezza relativa su quel numero. L’incertezza relativa è grossomodo 5.10 -n (con “n” numero di cifre significative). Il fatto di usare al massimo 2 cifre signifi- cative vuol dire che grossomodo io attribuisco all’incertezza “un’incertezza” che a sua volta è nell’or- dine del per cento perché 2 cifre vuol dire 10 -2. Il senso di dire uso due cifre e non di più è, attenzione tu hai valutato l’incertezza al meglio ma non pensare di conoscerla meglio dell’1, 2 o 3%. Se metti 3 cifre vuol dire che non hai capito che quella è una valutazione dell’incertezza che è sempre appros- simata e che non puoi pensare sia così accurata che la terza cifra ha significato. La preferenza è di metterne una quando la mia valutazione è più approssimata. L’altra regola è: IL NUMERO DI DECIMALI DEL VALORE MISURATO DEVE ≡ CON IL NUMERO DI DECIMALI DELL’INCERTEZZA Anche questa regola ha un senso abbastanza facile da identificare. Supponiamo infatti che: x = 1,2378 ± 0,24 la scrittura dell’incertezza è giusta dato che è scritta con due cifre significative, ma non è corretto il numero di riferimento. Questo si dovrebbe fermare al secondo decimale, cioè 1,24, per cui x = 1,24 ± 0,24 Perché non ha senso mettere i numeri 78? Perché io vado a sommare un qualcosa per il quale dichiaro di non conoscere il terzo decimale. Ho un intervallo di cui definisco gli estremi e per il quale dichiaro di non conoscere il terzo decimale e quindi non ha senso indicare la posizione centrale di questo intervallo con un numero che abbia più di, come nel nostro esempio, due decimali. L’infor- mazione fornita con il “78” è inutile perché vanificata da. non sapere cosa c’è dopo 0.24 nei decimali dell’incertezza. Una scrittura corretta sarebbe quindi del tipo: x = (1,24 ± 0,24) °C (scrittura corretta) ≅ 1,24 ± 0,24 °C (scrittura più comune) Scrittura suggerita dalla norma: x = 1,24 (24) °C (sparisce il punto decimale dall’incertezza) L’informazione sui decimali dell’incertezza non serve. La norma dice che deve essere uguale a quella del numero della misura. Quindi 1,24 ha due decimali, ne segue che l’incertezza è ± 0,24. L’ultimo punto di cui dobbiamo tener conto è il Livello di Confidenza (LC). Questo va indicato quando non utilizziamo un’incertezza tipo (che corrisponde a un LC del 68%, quindi K=1), bensì una estesa, allora dobbiamo precisare anche LC. Per esempio: x = 1,24 (24) °C (LC = 95%) CASO DI INCERTEZZA ESTESA (qui vuol dire che ho usato un K=2 per estendere l’incertezza tipo) Possono essere specificati anche le curve di distribuzione, Gaussiana o t-student e per quest’ultima anche i gradi di libertà. La mancanza di queste ultime informazioni è tollerata se si sono utilizzati i 21 fattori di copertura della gaussiana, non si toller a la mancanza di LC se non risulta chiaro ad esempio per una dichiarazione iniziale. *** con questo abbiamo finito la valutazione dell’incertezza *** Manca un ultimo tassello per la definizione di misura che è quello relativo alle UNITA’ DI MISURA Vediamo come si ottengono le unità di misura dato che questo discorso è importante per le opera- zioni di taratura di uno strumento. Le unità di misura che utilizziamo normalmente arrivano dal Sistema Internazionale (SI). Il SI è de- finito tramite 7 unità fondamentali. Come sono definite e chi ne realizza i campioni? C’è un organismo francese con sede a Parigi che si chiama BIPM (Boureau International Pois Meausures) che si occupa di questo. LE 7 UNITA’ FONDAMENTALI TEMPO Secondo s Si definisce con l’orologio al Cesio. 1 s è un multiplo del periodo dell’oscillazione fondamentale del Cesio. LUNGHEZZA Metro m Distanza di propagazione di un’onda elettromagnetica nel vuoto nel tempo di 1/v (v = numero pari alla velocità della luce: 299792458) MASSA Chilogrammo* kg Il campione è il cilindro di platino iridio che è ancora quello del 1889. E’ quindi un campione materiale che come tale può dare dei problemi. I campioni nazionali derivati da questo si è visto che stanno aumentando la propria massa nel tempo, segnale che il campione ori- ginale sta perdendo progressivamente la propria massa. Il campione verrà prossimamente sostituito. TEMPERATURA Kelvin K E’ la temperatura termodinamica, quindi fa riferimento alla relazione di Carnot, assunto per il punto triplo dell’acqua il valore 273,16 K. Si vuole sostituire la defi- nizione riferendola alla costante di Boltzmann. CORRENTE Ampere A Un ampere è l'intensità di corrente elettrica che, se man- tenuta in due conduttori lineari paralleli, di lunghezza in- finita e sezione trasversale trascurabile, posti a un me- tro di distanza l'uno dall'altro nel vuoto, produce tra que- sti una forza pari a 2 × 10 -7 Newton per metro di lun- ghezza. INTENSITA’ LUMINOSA Candela Cd E’ una unità legata alla percezione visiva e viene ripro- dotta tramite una sorgente monocromatica di intensità nota. MOLE Mole mol Quantità di materia corrispondente a 12 gr di Carbonio- 12 *NB La k in kg è e tutti i moltiplicatori 1000 è MINUSCOLA La parte interessante di tutto questo discorso è: come facciamo a garantirci che il metro che abbiamo sul mio tavolo corrisponda effettivamente alla definizione di metro del BIPM? Idealmente dovrei, quando realizzo un metro, andare al BIPM e confrontare il campione che sto utilizzando con il loro. Questo non è ovviamente praticabile. Esiste allora una catena che è chia- mata: CATENA DI RIFERIBILITA’ 22 BIPM INRIM LaT (ex SIT) UTENTI Realizza i CAMPIONI FONDAMENTALI. Deve garantire il confronto tra i suoi campioni e quelli degli Istituti Nazionali. E’ l’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica che opera in Ita- lia e ha sede a Torino. Dispone di campioni che confronta con quelli del BIPM. Inoltre ne crea di propri che fornisce ai laboratori di taratura, LaT, (ex SIT) dislocati sul territorio na- zionale. LaT, Laboratori di Taratura accreditati (in precedenza SIT, Servizio Italiano taratura). Dispongono di campioni di riferi- mento certificati dall’INRIM. Questi centri sono quelli che si interfacciano direttamente con gli utenti/aziende per la tara- tura dei loro strumenti/campioni con quelli di riferimento. La taratura LaT ha un costo. Quindi se voglio tarare il mio strumento o verificare il mio “campione di metro”, devo pagare. Molti strumenti che troviamo in commercio non hanno la certificazione LaT e sono stati tarati sfruttando campione privi di riferibilità, non necessariamente hanno prestazioni infe- riori a quelli con taratura LaT semplicemente non vi è la garanzia di riferibilità. Cosa succede per l’incertezza passando dal BIPM al LaT? Questa ovviamente aumenta. I campioni fondamentali hanno la minima incertezza, in qualche caso come per i campioni materiali incertezza nulla perché rappresentano la definizione delle quantità. Quando vado a confrontarmi con i campioni l’incertezza aumenta per effetto dell’incertezza associata al metodo/strumento di confronto. Anche i costi dei campioni aumentano passando però dal LaT al BIPM, quindi in direzione opposta all’au- mento dell’incertezza. I campioni del LaT costano relativamente poco, rispetto a quelli dell’INRIM che impegnano un’attività di ricerca e miglioramento continua. Il Politecnico ha, come anche molte aziende laboratori accreditati Lat. Per le aziende che hanno molti strumenti da tarare può infatti essere conveniente avere un centro LaT piuttosto che rivolgersi a laboratori esterni. I punti essenziali della lezione precedente: Valutazione di INCERTEZZA ESTESA: fghfg* = K hij K = FATTORE DI COPERTURA K = 1 K = 2 K = 3 LC = 68% LC = 95% LC = 99,7% Questa corrispondenza è vera per una distribu- zione Gaussiana L’incertezza estesa altro non è che il prodotto dell’incertezza tipo moltiplicata per il fattore di coper- tura. La cosa importante da ricordare sono i tre valori del fattore di copertura relativi ai vari campi di Livello di Confidenza. L’ipotesi Gaussiana è quella che viene sempre richiesta di applicare all’interno degli esercizi. Al limite verrà chiesto di annotare negli esercizi, nel caso di approccio tipo “A” e basso numero di misure, che l’ipotesi Gaussiana decade solo quando abbiamo una valutazione dell’incer- tezza di tipo “A” con un numero di elementi (n misure) abbastanza basso. Sicuramente se n < 20, dubbio se 20 < n < 100, mentre è sicuramente valida l’ipotesi Gaussiana se n > 100. Se non è valida l’ipotesi Gaussiana c’è sempre la distribuzione t-student che ci consente di determi- nare il fattore di confidenza sulla base del numero di gradi di libertà (n-1) e del Livello di Confidenza. REGOLE DI SCRITTURA: 23 Nella scrittura della misura ci dobbiamo sempre ricordare che: INCERTEZZA: PUO’ AVERE 1 o AL MASSIMO 2 CIFRE SIGNIFICATIVE La scelta tra 1 o 2 è arbitraria ma metterne più di 2 è un errore. VALORE DI RIFERIMENTO: STESSO NUMERO DI CIFRE DECIMALI DELL’INCERTEZZA Anziché essere deciso in termini di cifre significative è deciso in termini di cifre decimali. Quindi parto scrivendo l’incertezza, vedo quante cifre decimali la caratterizzano e a quel punto so quanti numeri decimali compariranno nel valore di riferimento. IMPORTANTE : l’arrotondamento deve essere fatto alla fine altrimenti rischio di aggiung